Mai dire mai?5 min read

Laura che doveva divenire mia moglie, viveva con i suoi quattro fratelli, una mamma chioccia e un babbo, diciamo così, un po’ particolare. Fratello maggiore di ben sette fra fratelli e sorelle, aveva per soprannome “Il Pinzacchia”(1)  mentre si era meritato il prestigioso appellativo di “Quercia della Maremma”.

 

Tutti abitavano nel Palazzo Pieraccini, che comprendeva oltre ai loro appartamenti anche un’osteria con tanto di girarrosto, attiva fin dagli anni ’20.

 

Mio suocero Alfiero fece il militare nei Carabinieri, dove si guadagnò una medaglia di bronzo al valor civile. Al ritorno  prese il fucile in spalla e con la caccia letteralmente sfamò tutte la propria numerosa famiglia, cognati, cognate e nipoti annessi.

La prima scelta era per l’osteria, quello che avanzava andava alle famiglie.

Specie durante il periodo di guerra la carne non era così facile da reperire e lui provvedeva con la sua attività. E pensare che poi a tavola aveva dei gusti abbastanza frugali e delle preferenze limitate, fino a divenire esclusive. Amava le acciughe sotto sale, le aringhe, il buristo ripassato nel tegamino e poche altre cose. La stessa cacciagione che riportava veniva raramente da lui consumata. Non ricordo avergli visto mangiare carni diverse dall’agnello e dal maiale.  Assaggiava via via il coniglio, ma solo di quelli che lui allevava e per i quali giornalmente andava a raccogliere e scegliere le erbe adatte, componendo un mix che variava a seconda della stagione.

Le poche verdure che giravano in casa erano da lui chiamate “erba” e come tali diceva che andavo bene per i cavalli. Questi suoi gusti particolari si riflettevano poi in ferree direttive indiscutibili per tutta la famiglia. Così che certe pietanze non solo non erano previste nel menu di casa, ma nemmeno dovevano varcare la soglia di casa, altrimenti c’era il rischio di vederle volare fuori dalla finestra.

Così i figli non avevano nemmeno mai annusato, e tantomeno mangiato, per esempio,  i cetrioli e le barbabietole rosse.

Con la mia futura moglie feci un ragionamento del tipo: io mangio di tutto ed in particolare amo il pesce e bevo vino. Non potrei vivere una vita con una persona che non mangia e non beve queste cose. Non ci furono problemi all’atto pratico: fin da subito e ancora adesso che siamo insieme da un mezzo secolo, la mia signora mangia pesce e beve vino. Più tutto il resto.

Scoprii poi che tutte quelle cose che in casa sua non aveva mai mangiato furono prima assaggiate, provate e infine accettate con gioia. Cetrioli e Barbabietole rosse comprese.

 Non tutti i fratelli e sorelle hanno superato così brillantemente il problema.

 Io mangiavo quasi tutto, ma c’erano delle cose che proprio non riuscivo a buttare giù. Il ricordo più triste era per un baccalà lessato e poi condito con olio, aglio e prezzemolo.

I miei nonni ne andavano pazzi, ma per me era una tortura. Lo stesso era con i cardi e i carducci ugualmente lessati e conditi: veramente un supplizio.

Anche perché a me non piacevano, ma allora era in uso: “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”. Che voleva dire: o mangi questo o mangi questo. E io malvolentieri, mangiavo questo. Solo da sposato, quando non c’era più nessuno ad obbligarmi,  dissi basta con queste schifezze.

 

Solo che, meraviglia delle meraviglie, mia moglie Laura ne andava pazza, specie per queste verdure che lei cucinava in modo sublime.

Dopo una sbollentata venivano passate in farina e poi in tegame con il burro. Le guardavo con sospetto, ma vedendo con che piacere  le mangiava provai anch’io e mi accorsi che fatte così erano parecchio buone!

Anche per il baccalà che in cucina di preferenza viene fritto le cose si misero subito in una maniera più che piacevole.

 

Quindi risolti questi problemi non avevo praticamente niente da rifiutare a tavola. E lei lo stesso. Tutto questo fino a qualche anno fa. Poi, come tante mode ed epidemie che molestano gli innocenti, si presenta un ingrediente che mi fa agire come faceva mio suocero: non sopporto nemmeno che entri in casa.

 

Qual è il problema? Non si compra e tutto è risolto. No, non è risolto, perché il malefico al pari di una tremenda epidemia me lo ritrovo in una quantità esagerata di situazioni. Nei panini con il prosciutto, nella pizza,  nella schiaccia, in mix nell’insalata, con la pasta, con le orecchiette, nella tagliata di carne, nelle frittate, e potrei continuare ancora per un bel po’.

Mi resta più facile dire dove, per ora, non mi è stata proposta: nel caffè.

 

Anche se temo che da un momento all’altro succeda anche questo. Di che si tratta? Scommetto che avrete già capito: mi fa specie solo a scrivere, con il rischio che mi rivenga a mente il suo pestilenziale odore. Si è la rucola! Questa sono sicuro che non ci sarà mai verso che un giorno mi piaccia. E questa volta mai è per mai. Credo.

          

 “Il Pinzacchia”(1)  stà per Pinzacchio, altro nome del Frullino, piccolo uccello che ricorda beccaccia e beccaccino e che abita zone lacustri e  paludose.

 

 

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE