La seconda medicina4 min read

Ecco una di quelle notizie che fanno piacere, anche se l’avremmo voluta leggere con qualche anno di anticipo: poche settimane fa sono state approvate le “Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera e assistenziale”. Tradotto vuol dire che il Ministero della Salute si è reso conto che negli ospedali e nelle case di riposo si mangia male e quindi bisogna porre rimedio.

Tutto parte dal presupposto che una dieta bilanciata è elemento fondamentale  di ogni terapia. Come dice il ministro Fazio “La ristorazione ospedaliera  è parte integrante della terapia clinica perché il cibo rappresenta uno strumento per il trattamento della malnutrizione, problema fino ad oggi sottovalutato. Una corretta alimentazione durante il ricovero, particolarmente degli anziani e dei lungodegenti, diventa parte integrante del percorso di cura”.

La malnutrizione comporta quindi una maggiore vulnerabilità alla malattia e provoca ricoveri ripetuti, così che una gestione non corretta del degente dal punto di vista nutrizionale può costituire una malattia nella malattia.

Letto questo passaggio, non si può fare a meno di tornare indietro di una quindicina d’anni, quando insieme al Tribunale dei Diritti del Malato alcuni soci/fiduciari dell’Arcigola Slow Food toscana, realizzarono una ricerca sulla qualità dell’alimentazione negli ospedali e nelle case di riposo. I risultati vennero presentati nel corso di un convegno dall’eloquente titolo “La seconda medicina”. Già allora era emersa chiaramente l’importanza terapeutica dell’alimentazione ospedaliera anche se, come era ampiamente prevedibile, la ricerca cadde nel dimenticatoio nel giro di pochi mesi.

Tornando ai giorni nostri, nel leggere le linee guida si viene appena sfiorati dal dubbio che le motivazioni del provvedimento non siano solo di natura etica, cioè che sia stato approvato con l’unico scopo di far star meglio il degente. Ci sono dati che evidenziano come la malnutrizione allunghi la durata media dei ricoveri, per esempio condizionando negativamente i risultati delle terapie, per cui un miglioramento della ristorazione consentirebbe una riduzione della permanenza in corsia, e quindi un abbattimento dei costi. L’operazione è del resto pienamente legittima, anzi come si dice, si prenderebbero due piccioni con una fava.

Certo è che secondo il ministero “Il benessere alimentare deve entrare a far parte a pieno titolo della cartella clinica”, con piena soddisfazione del paziente in quanto il vitto ospedaliero risulta essere il parametro a cui si presta maggiore attenzione durante il ricovero.

E se così è negli ospedali, l’attenzione verso il cibo aumenta decisamente nelle case di riposo – come abbiamo avuto occasione di far notare su questo giornale parlando dei Pranzi di Babette – in quanto lì si è residenti, non si torna a casa dopo la cura del “fatto acuto”, ma ci si vive, vi si passano gli ultimi anni della nostra vita.

La chiave di volta di questa operazione dovrebbe risiedere nel capitolato d’appalto, ovvero quel documento che viene utilizzato per fare le gare e affidare il servizio di ristorazione. E’ qui che si dovrà prestare la massima attenzione alla qualità dei prodotti, qualità che si ritrova nell’agricoltura sostenibile, nel rispetto dell’ambiente, nella sicurezza dei lavoratori, nella tipicità ecc.
Ed è in questo contesto che si torna a ribadire l’importanza della Carta dei Servizi Sanitari, di cui ogni ospedale dovrebbe essere dotato. La Carta contiene un patto tra il Servizio sanitario e i cittadini e per quanto riguarda in particolare la ristorazione deve fornire ampie e chiare informazioni sui pasti, la loro composizione, il sistema di prenotazione e distribuzione.

Problemi? Intanto le linee guida non sono una norma “cogente”, ovvero non c’è  un  obbligo immediato della loro applicazione e non sono previste sanzioni in caso di mancato rispetto (ad esempio, si legge che “è di fondamentale importanza che l’ospedale provveda a dotarsi di un prontuario dietetico…” E se non lo fa cosa succede?). Poi ci sono i tempi, bisogna aspettare che scadano i contratti in vigore che durano in media tre anni. E c’è l’aspetto economico, la qualità costa e questi non sono certo i tempi migliori per un aumento della spesa, anche se il fine è nobile.

Non resta quindi che prendere atto che le premesse e le intenzioni sono buone, anche se nelle numerose pagine delle linee guida è mancato di leggere una parola che poi è anche un concetto, una filosofia: Gusto. E’ chiedere troppo?

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE