Biondi Santi: una ventina di annate di Sangiovese, naturalmente Purosangue7 min read

Una verticale di Biondi Santi può essere affrontata in vari modi, ma sempre con grande rispetto e curiosità.

 

Così mi sono approcciato alla degustazione conclusiva di Sangiovese Purosangue, dove Davide Bonucci mi ha voluto al suo fianco come relatore.

Rispetto per il marchio, che è uno dei pochissimi a mettersi (o a venire messo) sempre in gioco con vecchie annate, curiosità volta al positivo per riuscire a capire come sia possibile che una piccola cantina (perché di questo si tratta alla fine) garantisca vini sempre, come in questo caso, non solo una qualità molto altà, ma una linearità e coerenza produttiva eccezionale.

 

Non parlero dei vini nel bicchiere perchè lo farà benissimo Alessandro Bosticco: queste righe preferisco spenderle “sull’aura” Biondi Santi che, come in questo caso, ha aleggiato sulla degustazione sin dall’inizio.

 

Per prima cosa l’etichetta, ne vogliamo parlare? Uguale a se stessa praticamente da sempre, ha avuto piccoli ritocchi che l’hanno resa non più moderna ma forse più leggibile.

 

Una delle poche cantine a mettere praticamente da sempre il numero di bottiglie prodotte (quando la legge lo ha permesso) e a dare un numero progressivo alla bottiglia. L’etichetta di Biondi Santi è come il vino che c’è dentro alla bottiglia: sembra antica ma è moderna, modernissima.

 

Aprendo le vecchie bottiglie di Biondi Santi, magari non ricolmate, ti trovi a dover enumerare una lunga serie di (appunto) santi, perché è difficilissimo trovare un tappo in buone condizioni. Mentre stappi pensi “Ma figurati se con un tappo del genere il vino si è salvato” e invece il vino è perfetto, come se il tappo fosse solo un qualcosa che serve per non versare il vino nel trasporto…alla sua qualità il vino ci pensa da solo!

 

Prima di avvicinarti all’assaggio non puoi non pensare a questi particolari, che particolari non sono perché nascono da decenni di esperienza, di storia, di (almeno negli ultimi 30 anni) resistenza intelligente al nuovo che avanza. Biondi Santi ha imparato nel tempo quello che tanti produttori devono ancora assimilare e cioè che cambiare per il gusto di farlo è sempre un errore. Le certezze qualitative si formano col tempo, con la ripetitività pensata delle azioni, con la sicurezza del saper perfettamente cosa fare in futuro perché fatto e rifatto con successo in passato.

 

La modernità ha radici nella tradizione ragionata: questo ci comunicano i vini di Biondi Santi e questo vogliono dirci anche la ventina di bottiglie presenti sul tavolone di servizio.

 

Prima dell’assaggio lancio una provocazione: negli ultimi 30-35 anni (la prima annata degustata è stata la 1977, solo alla fine abbiamo provato con il 1968) più i vini di Biondi Santi sono stati considerati antichi e superati, più erano moderni. Moderni, nel caso del Brunello, vuol dire vini che rispondono perfettamente al vitigno, che possono maturare e cambiare per un numero indefinito di anni, che non hanno fretta di essere osannati.

 

Infatti il 1977 ci stupisce non solo per freschezza e giovinezza, ma per una rettitudine costruttiva e qualitativa che è stata la caratteristica principale di ogni annata degustata e si è mantenuta inossidabile anche negli anni del modernismo dilagante, per poi “concedere” qualcosa (ma proprio poco) quando oramai non gli veniva più richiesto, quando si era capito che la vera modernità era abbandonare il modernismo enologico.

 

I vini non solo erano buoni, ma declinavano l’annata con l’austerità che Biondi Santi incarna senza perdere la “libertà di interpretazione della vendemmia”.

 

Non è stata una degustazione, è stata una lezione su come intendere il Brunello di Montalcino e in generale il fare vino.

 

 

 

Adesso passo la parola ad Alessandro Bosticco.

 

 

 

Le diciotto bottiglie provenivano da fonti diverse: ristoranti, enotecari, collezionisti privati, l’azienda stessa. Quando invece la verticale si svolge in azienda vale la garanzia del non-spostamento dal luogo di origine, che non è poco.

 

Casomai qualche bottiglia non fosse all’altezza alla casa madre c’è sempre il paracadute della sostituzione dell’ultimo momento, magari sotto l’occhio vigile del produttore stesso.

 

Inoltre per venire al caso concreto le etichette prese in considerazione erano tutte della tipologia "annata", quindi non le Riserve del Greppo che sono uno dei miti mondiali della degustazione a ritroso.

 

Eppure questi due "limiti" ci sono apparsi a conti fatti dei punti di partenza interessanti per valutare in modo randomizzato la consistenza dell’azienda.

 

Dubbi a proposito ce n’erano pochi, e infatti è uscita con risoluzione tutta la qualità e la personalità a cui il nome è associato.

 

Solo l’annata più vecchia, la ’68, è risultata fuori posto. Per il resto sono  emersi chiaramente e con costanza i caratteri di un Sangiovese davvero "purosangue":  colori piuttosto caldi e mai troppo scuri, anche nelle annate più recenti; bouquet sempre complesso con frutta a piccolissime dosi e tanti fiori (molte volte appassiti), leggero speziato e mineralità; il profilo gustativo classico, con alcol contenuto (anche se leggermente in crescita negli anni) e sostegno acido ben avvertibile, con tannini in secondo piano.

 

Costatemente apprezzabile la persistenza, che anzi fa pensare sempre a qualcosa da mangiare: un aspetto, questo, decisamente diverso da tanti altri classici vini "da verticale". Sono risultati appena più austeri forse, gli esemplari più vecchi, con un filo di consistenza in meno; ma si è rimasti nel dubbio riguardo alla ragione, notando anzi a partire dagli  anni ’90 la mancanza di qualsiasi cedimento alla moda degli estratti, delle marmellate scure e della dolcezza alcolica allora in  grande slancio pure a Moltalcino, moda culminata in brunellopoli.

 

In modo distaccato e quasi snob i Biondi Santi hanno tirato dritto, dio gliene renda merito. I vini sono godibili nel bicchiere, con il loro stile.

 

Siamo partiti, quindi, da un ’77 particolarmente lungo nella freschezza acida, con sentori di iodio e buccia d’agrumi. Mentre i profumi, come sempre accade con vini di questo calibro, continuavano a cambiare nel tempo (fra un commento e l’altro abbiamo girato intorno ai bicchieri per quattro ore…) siamo passati a un ’82 più composto, che ricordava fieno e cioccolato; poi a un ’83 con tabacco e incenso in primo piano. Ecco un eccellente  ’87, molto elegante e lungo, quasi soave in relazione agli altri, speziato e floreale. Certo uno dei campioni che ha strappato più elogi.

 

Interessante il confronto fra due annate big, ’88 e ’90. Ci capita spesso di notare che certi millesimi osannati all’origine (generalmente annate piuttosto calde, almeno fino a poco fa…) sono relativamente deludenti nel tempo. Qui è successo per metà, con l’88 più terziarizzato (torrefazione, liquirizia) e il ’90 invece più fresco quasi balsamico e mentolato.

 

Dopo un ’93 asciutto ma piacevole, floreale con un punto di fruttato, siamo passati a un’96 relativamente morbido, dalla notevole complessità olfativa.

 

Riecco un’annata calda col ’97, che infatti ricorda la "secchezza" di carruba e sommacco; quest’ultimo a dire il vero viene in mente anche per via dell’acidità di bocca, ben presente in tutte le annate, anche in annate non fresche. 

 

Dopo un ’98 in media con tutto il resto siamo approdati un ’99, che sembra aver conquistato proprio tutti: finezza e forza, complessità e persistenza. Una conferma che il millesimo è grande per i sangiovese toscani di livello.

 

Il 2001 è risultato piacevolmente diverso nel lato aromatico, ricordando a più di uno di noi funghi e glutammato tanto che è stato evocato l’umami (questo anche per via di una marcata e "dolce" sapidità  che serpeggia anche in altri esemplari). Il decennio è stato esplorato bene, con un 2004 serrato e lungo, ancora un po’ austero, poi un 2007 caldo e floreale, un bel 2008 dall’aroma di bocca particolarmente suadente e infine un 2009 sapido dai toni leggeri di incenso. Chiusura con il millesimo ’10, altra annata glorificata di cui si apprezzano qui una bella rotondità sapida e un lungo finale anche se una certa chiusura olfattiva non si è troppo risolta col passare del tempo. Ma è un bel bambino.

 

A un certo punto abbiano mangiato qualcosa; è comparso fuori degustazione un 2011, che alla prova di un pranzo rusticamente toscano ci è apparso equilibrato e perfettamente adatto ai piatti.

 

Insomma, superata anche la prova cibo. Del resto, avevate dubbi?

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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