Polaroid estive di un assaggiatore che ama la luce e i rolling stones15 min read

“La degustazione è disciplina che non esclude l’istinto, l’immaginazione, la follia”. 

                                                                                                                                 

Ora che siamo alle porte dell’inverno, col Merano Wine Festival alle spalle, dopo i drammatici terremoti che dal 24 agosto al 30 ottobre hanno devastato il Centro Italia, e la noiosa Clinton che perde col gigione Trump, ricordo frammenti della mia estate. 

Quella appena trascorsa. Quando incurante del caldo afoso che rendeva l’aria ostile e le membra appiccicose, ho continuato a viaggiare senza sosta per l’Italia vinosa da nord a sud. Non ho fatto altro: ho solo viaggiato. Per non farmi tentare dalla malinconia. Del resto sono stato pugile mica per niente: allenarsi dieci anni tre ore al giorno ti aiuta a resistere. Anche ai cattivi pensieri.

 

Con tutti questi giri estivi, che stagione è stata quella del 2016…

Una stagione inizialmente molto umida ed eterogenea nel comportamento, lenta nella partenza e dura da gestire. Fino alla fine di giugno pioveva, governo ladro. Una stagione che darà probabilmente vini eccellenti solo in pochi posti (ma lo saranno per davvero), in molti altri sarà invece ricordata per le numerose complicazioni in vigna. Ho visto interi appezzamenti assediati dalla peronospora, tante zone penalizzate dall’oidio, altre decimate dal mal dell’esca, per tacere dei tanti vigneti abbandonati (soprattutto al sud). In Puglia, regione che frequento con regolarità, non ho mai visto così tanta piogga fra agosto e settembre: pareva di essere in Friuli. Insomma, una situazione tutt’altro che facile da analizzare, eppure anche quest’anno pare sia passata la solita pantomima della vendemmia del secolo. Così va il mondo.

 

Sempre a proposito di caldo.

Mi è parso di patirlo più del solito, quest’anno, almeno durante il giorno, le notti invece sono state più clementi. Entrava silenzioso dal bocchettone della mia veneranda Bmw e ci rimaneva, anche per colpa del climatizzatore ormai quasi inefficace: senza voler pasolineggiare un tanto al chilo, mi sembra che questo caldo sia sempre più bizzarro e figlio dei tempi, un caldo ipertrofico, malato, un caldo che non scalda, brucia.

 

Penserete che io sia di malumore.

No, non sono di malumore, anzi sto benone, come mai prima d’ora credo. Però non è stata un’estate facile. Anche per colpa dei rumori della carrozzeria.

 

Chissenefrega della carrozzeria, sono cose non pertinenti.

Eh no, signori miei: Carlo Macchi mi ha dato carta bianca. “Scrivi ciò che ti passa per la testa“ e al direttore occorre dar retta.

 

Dicevo dei rumori.

Quando non rimangono soffocati dalla frenesia del traffico e dalla velocità, sono davvero fastidiosi. E  siccome in campagna si va piano e di traffico ce n’è poco, io li ho sentiti tutti, i rumori. Il contachilometri oggi segna 270.000: forse è ora di cambiare l’auto. Chiederò un anticipo al Direttore.

 

È stata tuttavia un’estate personalmente stimolante.

La prima senza una “Guida“ dopo molti anni a questa parte. Anche la prima da “single“ dopo molti anni a questa parte, perdipiù “single“ ancora innamoratissimo, ma direi di non entrare nel personale (qui perfino il Macchi sarebbe d’accordo). Dico solo che in questi mesi on the road ho capito che il tempo spazza via solo le cose meno significative, invece i battiti del cuore restano, quando il bene è assoluto. Ed è meraviglioso farsi guidare dalla corrente, arrendendosi alla forza prorompente di Madre Natura.

 

Tornando agli aspetti professionali.

Più che un licenziato (dall’Espresso) mi sono sentito un privilegiato (grazie Enzo Vizzari, ovunque tu sia), perché ho avuto come l’impressione di possedere l’intero vigneto italiano tutto per me, in completa solitudine. Ho toccato i terreni, imparato a potare, sniffato i venti, ascoltato i vignaioli. Per il piacere di farlo, di registrare nuove sensazioni, di osservare questo mondo con uno sguardo strabico, , senza l’urgenza di scrivere e di classificare.

 

Del resto nel vino il nomadismo è essenziale.

Significa ammirare per guardare, camminare col naso spalancato, percepire prima di giudicare. Approfondire il vero, il reale piuttosto che pensare il mondo per come ce lo hanno descritto gli altri è davvero la migliore delle opzioni da scegliere per chi studia vino. A me piace attraversarlo, il vino, per collezionare dettagli, per misurare la realtà con la pianta dei piedi. Chi se ne sta in ufficio autocitandosi all’infinito, benché con parole nuove e raffinate, si perde una parte cospicua di questo mondo. Il mondo del vino è immenso, occorre mettersi in cammino, ma ci vuole energia. E umiltà.

 

Chiusa questa parentesi da grillo parlante, vi anticipo che di tutto questo girovagare ho conservato alcune “polaroid“.

Rapide sequenze che mi fa piacere condividere con tutti voi, che rappresentate i miei venticinque (25) preziosissimi lettori di Winesurf. I soggetti sono diversi, il tema invece è quello della luce. Nel senso che ho selezionato solo i liquidi più luminosi, luminosi perché figli di terroir “di luce“ oppure perché concepiti da interpreti illuminati, altrimenti perché lucenti “A prescindere“, per citare il celebre spettacolo teatrale di Totò che nel cuore mi sta e che proprio in questi giorni compie 60 anni.

 

La luce per me è davvero decisiva.

Non potrei farne a meno. Solo che nei vini la luce si sente, non si vede: il bello del vino è che uno può lavorare di fantasia.   La degustazione è disciplina che non esclude l’istinto, l’immaginazione, la follia. I più bravi assaggiatori, donne e uomini, sono anime inquiete. Il bello del vino è anche capire che lo scopo dell’arte può tradursi in un intreccio di odori e di sapori che vorresti non finissero mai, come quando si ascolta Shine a Light dei Rolling Stones: “May the good Lord shine a light on you, warm like the evening sun”. Tanto da non ricordare che abbia mai fatto buio, né freddo, dopo quest’estate.

 

Alto Adige

Da Salorno a Bressannone passando per Naturno si beve mediamente benissimo, ma non è così frequente che ciò si traduca in bottiglie indimenticabili. Quando capita però, sono scintille: è questo il caso del tenero, raffinatissimo Lago di Caldaro Bischofleiten 2015 di Castel Salleg (www.castelsalleg.it), vero e proprio Grand Cru della schiava, vitigno che che reclama una rapida rivalutazione da parte del comparto e della critica. Una versione di purezza disarmante.

 

Champagne

Ho bevuto così tanto Champagne questa estate da aver probabilmente alimentato un torrente salato di fini bollicine, nel mio corpo. “Fare è pensare”: sono sempre più convinto che solo impastandosi di materia si riesce a esplorare l’essenza delle cose. La conoscenza di una zona, di una denominazione, di un vino non può essere frutto di riflessioni lontane dalla trincea della degustazione. Un assaggiatore si esprime assaggiando, niente da fare. Certo, occorre saper assaggiare: bisogna avere un occhio trasversale e un cuore grande per superare ciò che, a prima vista, sembra uguale, ma è con quest’occhio e con questo cuore che tutto, piano piano, diviene interessante, unico. Tornando alla Champagne: le cuvée più celebri e diffuse sono elaborate con notevole rigore e con ammirevole cura, ma non di rado risultano prevedibili nel risultato finale. Invece, al pari di altri appassionati, sono sempre più rapito dagli Champagne di nuova generazione, veri e propri “vin de terroir“ ideati dai vignaioli, e solo in seconda battuta messi a punto dagli chef de cave. Una bottiglia su tutte: il Sonate n.9-Opus 10 di Jean-Sébastien Fleury, Blanc de Noirs auboise di travolgente, luminosa salinità importato in Italia dal trio delle meraviglie Galleni/Stellone/Santini( www.teatrodelvino.it).

 

Correggio e la birra

Non si vive di solo vino,  soprattutto d’estate, quando le temperature infernali suggeriscono qualche divagazione più agile, come la birra, ad esempio. Nel genere mi ritengo un orecchiante senza un briciolo di credibilità, ma non credo di allontanarmi dal vero se dico che il Birrificio artigianale Dada di Correggio (www.birrificiodada.it)  produce birre di tutto rispetto. Correggio è per me città di luce (motivi strettamente affettivi) e ancora di più da quando ho scoperto che qui nasce la splendida Golden Ale “Lop Lop“: colore dorato vivissimo, schiuma fine e compatta, profumi mirabilmente luppolati (l’americano Chinook, gli sloveni Styrian) e gusto di raffinata gradualità dolceamara, che invita alla beva compulsiva nonostante la gradazione superiore ai 5 gradi.

 

Custoza (con le bollicine)

Le dolci e sassose colline di Custoza e dintorni, poggiate su un letto morenico a sud del Lago di Garda, non sono celebri per la produzione di Metodo Classico, ma potrebbero diventarlo. E se l’ormai storica produzione di Francesco Zamuner (www.zamuner.it) è ben nota agli appassionati più smaliziati, la Gran Cuvée 2009 di Albino Piona (70% corvina, 15% garganega, 15% trebbiano toscano) è una novità da tenere in fresco per chi ama le bollicine d’autore fuori dalle rotte più battute. Tiratura minuscola, va assolutamente provato(www.albinopiona.it).

 

Dolceacqua

Dolceacqua è, dei rossi italici, fra quelli che brillano per originalità: la sua è una luminosità bipolare, un po’ mediterranea e un po’ alpina. Del resto se da qualche anno in tanti si interessano al Rossese e a ciò che lo rende unico, è innanzitutto per questa idea di originalità. Tra le unicità, un curioso “polimorfismo” espressivo, che spesso lo fa somigliare a qualcosa di già noto, ma per l’appunto, con un’originalità tutta sua. Il miglior Dolceacqua, rarissimo, è un’irresistibile commistione di eleganza e profondità, calore e sapidità, frutto e spezie, vinosità giovanile e insospettabile talento evolutivo. Durante i primi mesi di bottiglia si accontenta di consolare più che di scuotere, è conviviale, piacevole; finché qualcosa piano piano si screpola, si muove, lasciando filtrare, a distanza di anni, un talento e una personalità che mutano (talvolta drasticamente) a seconda della collina d’origine. I bravi vignaioli sono ormai noti agli appassionati (Giovanna Maccario e Nino Testalonga su tutti), qui invece mi preme applaudire il lavoro di Filippo Rondelli (www.terrebianche.com): per i vini che produce (sempre più raffinati e personali: eccitante, ad esempio, la scodata succosa e sapidissima del suo Dolceacqua 2015, la versione “di base”), per la fine conoscenza dell’intero distretto (una visita in Terre Bianche vale da sola il costo del viaggio) e per il prezioso, autorevole ruolo di Virgilio che in qualche modo l’intera comunità dolceacquina gli ha affidato.

 

Elba

Il mio grande amico Thomas Rossi, ormai elbano d’adozione, mi ha invitato a visitare l’Isola, lo scorso agosto. Tre giorni in famiglia (con Francesca, Arnaldo e Vittorio padroni di casa meravigliosi), un paio di escursioni gastronomiche degne di nota (su tutte, la cena al Ristorante Affrichella di Marciana Marina), un mezza dozzina di Champagne stappata per rompere la sete (del resto l’offerta dell’Enoteca Calata Mazzini di Portoferraio è notevole), un po’ di bella musica (da Giannino, a Campo nell’Elba, con la struggente voce di Nicola Mei) e, va da sé, qualche visita alle cantine locali. E se è vero che la stragrande maggioranza dei vini elbani fatica a esprimere la personalità che il territorio lascerebbe presagire, è vero pure che qualche eccezione esiste. Tre le bottiglie sensibili al terroir e meno agli aspetti turistici e commericiali va citato l’Aleatico passito di Arrighi a Porto Azzurro (tutte le edizioni dalla 2012 in poi; www.arrighivigneolivi.it)e i bianchi di Stefano Farkas  (Ansonica e Vermentino, entrambi della vendemmia 2015; www.valledilazzaro.com), leggiadri, salini, realmente isolani.

 

Emilia

Nel vasto paesaggio della Pianura Padana tutto si confonde nel traffico più isterico, facendo lavorare la fantasia. Con la fantasia si viaggia veloce, il tempo quasi scompare e si trasforma in un sogno che apre orizzonti. E si sa che nulla è precluso a chi sogna. Qui decine di vignaioli hanno cominciato a sognare qualche anno fa e da allora, non hanno più smesso: come se la via Emilia fosse un prolifico, visionario moltiplicatore di vini frizzanti. Basta scordarsi i Lambrusco industriali: si parla di liquidi realmente artigiani, ideali per i bevitori più curiosi, in grado perfino di evolvere con grazia, come lo splendido “Libeccio 225” 2010, Grasparossa in  purezza prodotto nella pedecollina di Reggio Emilia dal giovane Denny Bini (www.viniveri.net/produttori/bini-denny). Autentica gioia di vino.

 

Moscato carsico.

Nella Murgia del Sud Barese, tra Gioia del Colle, Acquaviva delle Fonti e Santeramo in Colle, in un lacerto pugliese di autentica bellezza bucolica, si è capito da tempo che l’uva primitivo sta a suo agio: l’altitudine piuttosto sostenuta ne rallenta la maturazione (fattore decisivo per un’uva precoce) e i suoli rocciosi apportano nutrimenti minerali e salini che si traducono in rossi meno alcolici e monolitici di quelli prodotti in Salento. Una premessa che tuttavia introduce un’eccezione: nel senso che stavolta non è un Primitivo che voglio raccomandarvi: troppo facile. Proverò invece a convincervi che il Moscato Secco Maccone 2015 di Donato Angiuli (il muscat à petit grain è un vitigno che sta bene al Sud) è un bianco di solare, terpenico, di mediterranea golosità(www.angiulidonato.com).

Da provare, perché no, con una omelette alle erbe.

 

Interpreti di periferia. 

La culla del raro e aromatico Centesimino si trova nella prima collina romagnola, tra Faenza e Forlì, ai piedi della ridente località di Oriolo dei Fichi. Si tratta di un vitigno dal passato piuttosto oscuro che per contro dona un rosso di colorata, immediata morbidezza: non è propriamente un vino di luce, ma è la grintosa passione di Rita Babini e di suo marito Claudio Ancarani che illuminano questa misconosciuta fetta di terra romagnola(www.viniancarani.it). Il loro è un Centesimino di notevole temperamento (come pure le loro notevolissime versioni di Albana, nonché l’“ignoto“ Famoso) e conferma come la personalità degli interpreti faccia sempre la differenza nel risultato finale, soprattutto in periferia. Non vi bastasse l’esperienza degli Ancarani, allora date una chance anche all’intera produzione di Elisa Mazzavillani (www.vinimartavalpiani.it), che sui calanchi di Bagnolo, nel comune di Castrocaro Terme, mette in bottiglia vini che mai, dico mai, era stato possibile produrre prima, su quelle terre. Studio, ostinazione, personalità e luce. Appunto.  

 

 

Metodo Classico

Sto lavorando a un libro sul Metodo Classico italiano. Conto di farlo uscire entro settembre 2017. Del resto, negli ultimi quindici anni il Metodo Classico non è soltanto affare di poche regioni di storica vocazione (Lombardia, Piemonte, Trentino e  Veneto), ma va trovando una robusta diffusione in tutto il territorio nazionale. Da Nord a Sud, non vi è distretto enoviticolo privo di referenze credibili e che in non pochi casi suggeriscono nuove strade interpretative e futuri scenari tutti da esplorare. Non manca istante che sulla mia scrivania non arrivi un nuovo Metodo Classico, spesso originato da varietà autoctone e in zone dove di solito si producono vini di tutt’altra fattura. Assistere a questa continua evoluzione è fonte di ispirazione e di sfida. Fino a pochi anni fa, appassionati e critici, perfino quelli più curiosi, non avrebbero mai tentato un confronto serio tra i Metodo Classico italiani, sia pur i migliori, e il più modesto degli Champagne in commercio. Oggi invece più di qualcosa va cambiando e io provo a registralo: sempre con la “luce“ nel cuore.

 

Montefalco in bianco.

In verità a Montefalco ho solo trascorso un paio di notti (in bianco), lasciando invece spazio a un’esplorazione (meno consueta) delle colline perugine. Tra le cantine visitate, il ricordo di Collecapretta (www.collecapretta.it) è quello più nitido. Vittorio Mattioli è un contadino, l’ospitalità è contadina, i suoi vini contadini: si respira coerenza. A me è piaciuto tantissimo il Terra dei Preti 2015, Trebbiano Spoletino con macerazione sulle bucce, imbottigliato senza aggiunte di solforosa: verace più che rustico, sa di uva matura e di sole, di macchia e di spezie, e si lascia bere con pericolosa nonchalance.

 

Romagna

Per troppo tempo in Romagna, nella mia Romagna, si è fatta strada una tesi muscolare di Sangiovese, tutta volume e calore. Dopodiché negli ultimi anni si va materializzando l’antitesi secondo cui è possibile assecondare le attuali esigenze degli appassionati, creando rossi verticali e succosi. Forse la verità è nella sintesi: in medio stat virtus. I fratelli Camillo e Giacomo Montanari (www.cadisopra.com) ce lo dimostrano con una sublime versione di Crepe, nel suo genere, nella sua tipologia, un capolavoro di golosità. Golosità tonde, sferiche, ma ricamate da tenere evoluzioni; in bocca il passo è spedito e il finale caldo quanto basta per non soffocare la luce del frutto.

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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