Campania Stories in rosso: perchè non piedirossiziamo la regione?4 min read

Una manifestazione come Campania Stories, che in 5-6  giorni permette di farti un quadro abbastanza esaustivo del vino campano, non può essere presentata in un solo articolo.

 

Del resto se assaggi un panorama  di vini estremamente composito, che spazia non solo dai bianchi ai rossi ma attraversa praticamente tutti  vitigni regionali, quando cerchi di riportare la cosa su carta (o su web) non puoi sbrigartela con poche parole.

 

E le prime di queste non poche parole vanno dedicate  all’organizzazione: Miriade & Partners ogni anno riesce nel miracolo di mettere assieme un puzzle difficilissimo, con i produttori campani spesso nelle vesti di coloro che scuotono il tavolo per far cadere i pezzi, più che nel ruolo di quelli che aiutano a completarlo.

In effetti, non è la prima volta che lo dico, la Campania enoica dovrebbe fare un monumento a questi ragazzi, che riescono ogni anno a presentarla al meglio alla stampa nazionale. Quest’anno la variante era la sede unica, che sinceramente non ha convinto tutti ma è comunque un modo per facilitare non poco il lavoro degli organizzatori.

Organizzatori che, oltre ad una sala di degustazione impeccabile, a decine e decine di visite in azienda con intrecci di orari paragonabili  a quelli dei tram di una grande città, sono riusciti anche ad organizzare interessanti focus su alcuni vitigni campani.

Ho partecipato a quello sul Piedirosso e proprio da lì voglio partire per parlare della situazione dei rossi campani.

 

il Piedirosso è infatti il vitigno che mi ha più convinto quest’anno: non solo perché finalmente ha raggiunto un alto livello di pulizia enologica, ma soprattutto perché oramai sembra aver assunto il ruolo di vino-vitigno  “dotato delle tre P” cioè “Particolare, piacevole e perfettamente abbinabile a tantissimi piatti”.

 

Il cammino del Piedirosso non è stato certo facile: ha dovuto togliersi di dosso il peso del secondogenito, che deve seguire la strada del fratello maggiore Aglianico fatta di potenza, estrazione, legni etc. Dopo anni di esecuzioni piuttosto velleitarie c’è riuscito, abbandonando quasi nella totalità interpretazioni alla “vorrei ma non posso” che lo snaturavano completamente. Questo anche se il vitigno ha i suoi bei tannini, fino a poco tempo fa però non valorizzati nella giusta maniera.

Oggi il piedirosso, con 1000 ettari  vitati in tutta la regione  (settima uva e quarta a bacca rossa) è quasi sempre un vino profumato, immediato ma complesso, piacevole, di buon corpo e di discreta (diciamo attorno ai 3-4 anni) serbevolezza.

In particolare quello prodotto nei Campi Flegrei alle porte di Napoli è forse  la punta di diamante,  che riesce a condensare in sé complessità e profondità gustativa rispetto alle versioni  di altre zone che puntano soprattutto sull’immediatezza.

Comunque siamo di fronte ad  una tipologia che oramai non può più tornare indietro e deve continuare a marcare con la sua riconoscibilità, piacevolezza, immediatezza, adattabilità il mondo del vino rosso campano che si beve.

Ripeto e sottolineo, che si beve, perché non so quanto i grandi e grossi Taurasi e comunque molti aglianico muscolari, vengano bevuti quotidianamente e soprattutto quanti si adattino alla grande cucina campana o più semplicemente a quella di tutti i giorni.

 

Per questo i molti rossi campani non da uve piedirosso, provenienti  dall’Irpinia ma anche dalle altre zone vinicole della regione, assaggiati a Campania Stories mi hanno convinto di una cosa: che dovrebbero essere tutti, chi più chi meno, “Piedirossizzati”.

 

Naturalmente non penso ad un inserimento del Piedirosso in vini come il Taurasi ma ad iniziare a considerare la piacevolezza di un vino come fattore iniziale e basilare, anche per un prodotto che dovrà maturare nel tempo. Quindi non privilegiare sempre e comunque l’estrazione, la concentrazione ma l’eleganza, la finezza, il non sentire per forza il  legno per i primi 7-8 anni di vita del vino.

 

In altre parole, smettere di fare grossi vini e cominciare a fare grandi vini, come appunto lo sono alcuni Piedirosso.

 

Ripeto, non si tratta di fare tabula rasa e piantare piedirosso ovunque ma di capire VERAMENTE, che il vino deve essere bevuto e per farlo non può essere monolitico, scorbutico, estremamente tannico.

Questo ruolo lasciamolo ad altri vini di altre zone, che riescono a declinarlo molto bene, in Campania invece si passa dalla grande, solare, complessa piacevolezza dei bianchi alla mole granitica di tanti rossi.

 

Come si cambia colore del vino spesso sembra che cambi anche il produttore, che da una parte regala bianchi serbevoli, profumati, anche di corpo ma sempre eleganti e dall’altra propina rossi quadrati e spigolosi, marcati da legno.

 

Questa signori miei, è anche mancanza di esperienza, di conoscenza.  Andate per il mondo, apritevi, assaggiate gli altri vini e scoprirete che la tannicità non è una religione monoteista ma uno dei tanti elementi di una certa tipologia di vini. Non è l’estratto secco quello che conta in un grande rosso ma l’equilibrio delle varie componenti.

 

Per questo dovrebbe essere preso ad esempio il modo di porsi di fronte, enologicamente parlando, al piedirosso.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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