Carlo Ferrini a Londra: meno San Giovese, il mercato l’é ateo!9 min read

La mattina di Lunedì 19 Novembre, negli eleganti locali della Vintners Hall, accanto all’edificio che ospita il WSET nel quale ho studiato, e l’Institute of Masters of Wine (nel quale ho paura che non metterò mai piede), il famoso enologo Carlo Ferrini si è concesso ad una folta platea di giornalisti e di professionisti del vino, per un seminario della durata di circa due ore. Il seminario faceva parte della serie chiamata “The Great Italian Winemakers Series” che nella sua prima puntata, ha visto a Maggio scorso l’esposizione del Dottor Riccardo Cotarella (vedi articolo).

I due eventi si presentavano fin dall’inizio in maniera molto distinta. Carlo Ferrini non ha tentato la carta della lingua inglese, ma si è espresso in italiano, con l’aiuto della brillante traduzione di Tina Hunt: questo ha evitato malintesi ed eventuali mancate risposte legate ad una non perfetta padronanza della lingua. I vini nella degustazione guidata erano 15, uno per ogni azienda presente, e tutti rossi.

Non c’è stato un tentativo di spacciare i prodotti presentati come “pura espressione del terroir” ed al tempo stesso come “prodotti che il mercato richiede”, anche perché dovrebbe essere palese che i due concetti possono coincidere in un vino, soltanto in casi rarissimi ed eccezionali.

Il celebrato enologo toscano ha detto presentandosi al pubblico, di considerarsi un “campagnolo”, sicuramente non una persona da giacca e cravatta come quel giorno ci era dato di vederlo.

“Se dovessi pensarmi in un ristorante, mi vedrei come uomo di cucina, sicuramente non come un’elegante maître di sala” ha aggiunto Ferrini, che con il suo fare deferente ha guadagnato in un istante la simpatia e l’attenzione del pubblico. Se poi la modestia del Ferrini sia stata sincera o meno non mi è dato di sapere: non lo conosco a sufficienza, ed era per me solo la seconda volta che ascoltavo una sua esposizione. La prima fu a Roma alcuni anni fa, quando venne a tenere una masterclass sugli assemblaggi alla International Wine Academy. In quella occasione, avevo chiesto al Ferrini (tramite Duccio Corsini) di portare con se una serie di vini monovarietali e pre-assemblaggio da una delle aziende alle quali prestava consulenza (Tenuta Marsiliana), per poi affrontare in aula l’assemblaggio dei vini in maniera pratica. L’incontro fu molto interessante, ma ricordo che rimasi sorpreso (deluso?) del fatto che su una decina di vini delle più diverse varietà (Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot, Cabernet Franc, Mourvedre, Alicante, Tannat…) non c’era il Sangiovese. Quando qualcuno in aula gli chiese lumi in merito, lui rispose qualcosa del tipo “Era troppo banale portare del Sangiovese!”.

Quell’affermazione non mi lasciò un ricordo positivo, ma credo ora, dopo tanti anni, di potermi ricredere sul conto del baffuto enologo. Ha le sue convinzioni, che non necessariamente (forse raramente) si incontrano con le mie, a volte stento a capirlo, altre non ci arrivo proprio, ma sentendolo parlare ed esporre le sue idee con tanta passione, credo che nessuno possa pensare che sia in malafede. E’ apparso spontaneo e genuino, a tratti coinvolgente. A tratti. Perché se è vero che nei suoi vini il frutto e la puntualità con la quale questo (in anticipo sul tannino) si concede al degustatore è affascinante, è altresì vero che alcuni princìpi dai quali il tosco winemaker parte, non sono per il sottoscritto condivisibili.

Parlando dell’uva tosca per eccellenza, Ferrini ha dichiarato: “Se voglio arricchire il Sangiovese (di cosa? N.d.R.) lo devo mettere in un legno vivo, non in un legno morto”. Questa frase è leggibile da diverse angolazioni. Nell’ottica del Ferrini evidentemente motiva l’uso delle barriques, mentre nella mia, sconfessa in un colpo solo almeno 3 generazioni di Biondi-Santi.

Uno dei presenti ha domandato: “Che cosa dovrebbe spingere un consumatore britannico ad acquistare un vino a base Sangiovese?” Bella domanda: se avessi dovuto rispondere io sarei stato in difficoltà. Ferrini ha risposto: “Personalmente, se c’è una cosa del Sangiovese che potrebbe farmelo preferire ad altre uve, quella cosa è il profumo. Il Sangiovese ha profumi elegantissimi, affascinanti…”

“E vai così!” ho pensato

“Ce li può descrivere?” chiede l’altro

“Li paragonerei ad una bella donna…Una bella donna che ti attrae fortissimamente, così tanto che ti ritrovi costretto a corteggiarla” e aggiunge “…Però devo anche dire che c’è quasi più soddisfazione a farle la corte che poi a farla tua”

Ma perché? Stava andando così bene!!! Li aveva in pugno, erano quasi li-li per uscire a comprarsi una batteria di Sangiovesi da gustare a casa la sera!…

Da li in avanti, a tratti in maniera tangibile, a tratti meno, ho avuto l’impressione che la sala si convincesse del fatto che il Ferrini pensasse al Sangiovese come ad un uva sì splendida, ma che, potendo, non disdegna una mano di aiuto, in termini di colore, di struttura o di entrambi.

Qui si potrebbe aprire una lunga discussione sul perché il colore di un vino, inteso come tonalità ed intensità, debba essere generalmente valutato in termini assoluti (ovvero: più è violaceo, più è scuro e meglio è) anziché in relazione con il colore che la/le varietà usata/usate dovrebbe/dovrebbero effettivamente dare. Il Ferrini ed i suoi colleghi non hanno assolutamente imposto al mercato il color melanzana, glielo hanno solo consegnato su sua espressa richiesta. E questa richiesta del mercato è nata a sua volta grazie agli articoli di certa stampa specializzata e molto influente. Ecco, si potrebbe discutere di questo, ma si andrebbe clamorosamente fuori tema.

“Solo fino al 1980 in Italia” ha continuato Ferrini” a parte pochissime eccezioni, qualsiasi studio venisse fatto sui vigneti e sui vitigni era fatto con lo scopo di poter incrementare le quantità di prodotto. E’ per questo che quando sento parlare del cosiddetto Nuovo Mondo, io in questo Nuovo Mondo ci includerei anche l’Italia!”. Firmo e sottoscrivo anch’io: il ragionamento non fa una grinza.

“A quell’epoca il vino era visto esclusivamente come parte integrante di un pasto, era nutrimento. Oggi non abbiamo più semplicemente bisogno di nutrirci: oggi abbiamo bisogno di godere”.

Subito dopo il seminario, ho voluto approfondire con lui questo punto, perché se il vino deve diventare puro “godimento”, questo può voler dire che magari bisogna prescindere (quando lo si produce) da un suo eventuale abbinamento a tavola, come succede in quello che è comunemente chiamato “Nuovo Mondo”. Ed in effetti così sembra essere: alcuni dei vini degustati erano si di grande effetto, ma immaginandoli a tavola (durante la stessa degustazione) stentavo a trovargli una collocazione ed un uso. Ho posto una “A?” accanto ad ogni vino che mi è sembrato non facilmente abbinabile. Su 15 vini ho segnato 7 “A?”. Interpellato su questo punto, il signor Ferrini si è detto sostenitore dell’abbinamento libero “Ognuno deve sentirsi libero di prescindere dalle teorie di abbinamento vino-cibo. Se a qualcuno va di bere Barolo sulle ostriche, perché non dovrebbe farlo?”. Anche su questo sono d’accordo, infatti ho detto al Ferrini che anche io da sempre sostengo la stessa cosa, ma sono anche convinto che le teorie di abbinamento vino-cibo non vogliano imporre nulla, semplicemente si propongono di individuare per ogni portata, il vino (o i vini) capaci di mettere d’accordo il maggior numero di commensali, e il Barolo sulle ostriche sicuramente non lo farebbe.

Si è poi parlato di vitigni autoctoni. Carlo Ferrini non è un sostenitore dell’autoctono a tutti i costi. Ha avuto modo di dire che lui pensa di essere pagato da un’azienda per produrre il miglior vino possibile dai vigneti che la stessa azienda possiede. “Se io penso che in una determinata posizione il Sangiovese, ad esempio, non produca qualità, sarà mio dovere toglierlo e sostituirlo con una varietà che io ritengo più adatta per quel posto”. E questo era un ottimo momento per chiedergli che cosa pensasse del fatto che molti suoi colleghi hanno sostenuto che il Merlot (piantato a profusione nel passato recente) è una varietà inadatta ad una regione calda come la Toscana. Si è detto d’accordo in linea di massima. “Sicuramente è stato un errore piantare tanto Merlot in Maremma a 10 metri sul livello del mare, ma considero un errore ancora più  grave l’aver piantato Sangiovese a 500 metri”.

Ancora sugli autoctoni, quando qualcuno gli ha chiesto se in uno dei vini siciliani degustati ci fosse del Perricone, Ferrini ha risposto senza mezzi termini “Non credo né nel Perricone, né nel Ciliegiolo né in altre fantasie” evidentemente asserendo che secondo lui questi vitigni non hanno niente da apportare ad un vino fatto con Nero d’Avola in un caso o con Sangiovese nell’altro.
Parlando ancora di Toscana, di Sangiovese ed in particolare di Chianti Classico, Ferrini aveva accennato ad una sua personale visione del Chianti Classico stesso, stuzzicando la mia curiosità. “Io ho una mia personale idea per eliminare la confusione che c’è sul Chianti Classico, ma non ve la dico se no mi buttate fuori…” Come potevo non chiedere ulteriori spiegazioni? La soluzione Ferriniana sarebbe estendere la denominazione Chianti Classico a tutti i vini prodotti nell’area del Chianti Classico, prescindendo dalle varietà usate, dalle loro proporzioni e dai requisiti di invecchiamento. Io la vedo come una soluzione che creerebbe ancora più disomogeneità e confusione, ma confido che se il Ferrini da appassionato, da toscano e soprattutto da enologo sia arrivato a pensare una cosa del genere, un motivo ci dovrà pur essere. Io al momento non riesco a vederlo.
Ho chiesto ancora al Ferrini la sua opinione sull’uso di alcune procedure di cantina come ad esempio la spinning cone column ed i concentratori. Ferrini si è detto fermamente contrario ad una estremizzazione della tecnologia che la spinning cone column introdurrebbe, ma assolutamente favorevole all’uso dei concentratori a freddo.
“Perché mai l’aggiungere mosti concentrati provenienti da, per dire, il Sud Africa, non è sbagliato, (anzi ci prendo pure le sovvenzioni) e usare un concentratore dovrebbe esserlo?”.
Ecco: perché è lecito l’uso dei mosti che poi rendono sensato questo ragionamento? Risposta triste e vera: perché comunque, che non cada una goccia o che piova molto, il vino, bisognerà poi venderlo.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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