Che linguaggio usare per navigare nel “grande mare” del vino?4 min read

“Parecchio bono/bono/beilo te (bevilo tu)/un troiaio (una schifezza).”

 

Questa scala di valutazione dei vini abbastanza dialettale, passatami da un vecchio produttore aretino mi ha sempre intrigato per almeno due motivi:  il primo è che parte dall’alto e va verso il basso, dimostrando quindi un approccio positivo al vino, il secondo è la sua tagliente sinteticità.

 

Sinteticità che noi critici (o pseudocritici) italiani, nel descrivere un vino evitiamo come la peste o quasi.

 

Potrei farvi esempi su esempi ma mi fermo a due perle a cui gli esperti di settore sapranno attribuire nome e cognome.

 

“Giallo dorato pieno e cristallino, con una tonalità che niente ha ceduto agli anni. Il profumo è prettamente caratterizzato da sentori di burro di nocciolina, non si negano nemmeno espressioni fruttate, ananas, pera williams, e si completa con uno spicchio d’evoluzione che s’esprime in ricordi di tisana e di infusi vegetali. Al gusto l’impatto iniziale è dominato dalle sensazioni di morbidezza, rapidamente sopraffatte dal sapore fresco e salino della susina gialla che testimonia un’acidità ancora viva, La persistenza aromatica è accettabile, otto secondi, e fa riaffiorare un finale di refrigerante frutta a pasta gialla.”

 

“Un frutto di magnifica fittezza, di grande armonia gustativa. il suo xxxxxxxxxxxxxxx è un vino di raro valore: profumi di pulizia e di fragranza illibata, con note di ciliegia e mora in limpidissima evidenza. Sapore di morbidezza e suadenza fenomenale.”

 

All’opposto, cercando tra le tantissime note di degustazione “British style” sul web ne ho selezionata praticamente una a caso, relativa ad uno champagne di ottimo livello.

 

the wine showed slightly older than its true age due to its color and slight loss of bubbles. Still, the brioche, citrus and green apple nose, coupled with elegant textures gave the wine quite a bit of charm and pleasure.”

 

Salta subito all’occhio un tipo di linguaggio completamente diverso, non solo più scarno, ma meno aulico, autocelebrativo, assolutamente non infiocchettato da aggettivazioni ridondanti.

 

Bisogna anche dire che per fortuna in Italia molti colleghi scrivono di vino in maniera più sobria e sintetica e addirittura c’è chi, come noi (tanto per non farsi pubblicità) usa una serie di simboli e solo pochissime parole per i vini migliori.

 

Ma arriviamo al sodo: il mondo del vino italiano (critica, appassionati, esperti, produttori, ristoratori etc) è un misero laghetto in confronto al grande mare che parla altre lingue e che comunque si ritrova attorno all’inglese.  Tutto questo grande mare, che in realtà è identificabile con il resto del mondo, che tipo di linguaggio enoico  vuole, conosce e può apprezzare?

Perché la critica enoica italiana non è mai riuscita a sbarcare e a sbancare  all’estero?

Perché i pareri di esperti non italiani, nel grande mare del vino mondiale, hanno sempre più peso dei nostri?

E’ solo un discorso di lingua (loro scrivono in inglese e noi no) oppure anche se scrivessimo in inglese non sfonderemmo lo stesso?

 

Questa serie di quesiti ce li siamo posti durante l’ultima riunione IGP (I Giovani Promettenti) a Firenze e tra le varie risposte che ci siamo dati è venuto fuori questo quadro: sicuramente il non scrivere in inglese è fortemente penalizzante, soprattutto nell’inglese sintetico che impera nel mondo del vino (leggete una recensione di Jansis Robinson per farvi un’idea).

 

Ma questo non basta, il modo del vino italiano è legato ad una sola stagione, l’autunno, quando cadono le foglie e le guide in libreria, mentre il grande mondo del vino mondiale non ha stagionalità e, specialmente sul web, pubblica di tutto  e tutto l’anno.  Inoltre le ante-ante-anteprime delle grandi testate americane forse non creano il mercato ma gli danno un’impronta che per chi arriva secondo è difficile intaccare. Magari può essere fatto nell’orticello italiano ma non a livello planetario.

 

Insomma, per non farsi superare da tutti, per cominciare a far contare davvero il nostro parere di esperti che vivono il vino italiano 365 giorni all’anno, per lasciare il laghetto di casa e approdare alle sponde del grande mare enoico,  occorrerebbe “forse” cambiare strada.

 

Che fare ,direbbe a questo punto un enoico PseudoLenin?  Sempre durante quella riunione di possibili soluzioni ne sono state prospettate diverse e, con tempi da “Giovani promettenti” stiamo cercando di portarle avanti e di valutarne la fattibilità.

 

A proposito, e così lancio il megaquesito estivo, voi che fareste?

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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