Convegno di biodinamica a Montespertoli: un ponte tra due mondi6 min read

La cosa più difficile del mondo? Andare a un convegno dove si confrontano viticoltura biodinamica e tradizionale cercando di non essere schierato da nessuna parte. Io ho provato e forse ci sono, in parte, riuscito.

 

Prima di tutto di cosa sto parlando: del  9° Convegno di Viticoltura Biodinamica Moderna  che si è tenuto a Montespertoli sabato 4 novembre e che aveva come tema principale “Viticoltura e enologia: confronto tra metodologie classica e biodinamica”. Il convegno era organizzato da www.viticolturabiodinamica.it , con il fondamentale contributo di Rita Mulas e  Leonello Anello.

 

In pratica, in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze, cinque cantine biodinamiche toscane hanno dato 350 chili di uva ciascuna ad una cantina tradizionale (Fattorie Parri). Queste uve sono state vinificate in maniera tradizionale e i vini ottenuti  messi a confronto (dal punto di vista microbiologico e sensoriale) con quelli “uguali” prodotti dalle cinque cantine biodinamiche. Inoltre sia le vinificazioni biodinamiche che quelle tradizionali sono state monitorate attentamente e i risultati presentati al convegno. Quindi, alla fine dei salmi, era il vino che parlava ed ha anche parlato chiaro.

 

Ma non si può buttare giù un muro senza fare fatica e dover portare via i cocci. Il muro in questione è quello che divide i “tradizionali” dai “biodinamici” e scusate se adesso virgoletto.

Lo faccio perché durante il convegno mi sono imbattuto in questo muro declinato in varie maniere: il muro del preconcetto, quello lessicale, quello gustativo.

Il primo è stato costruito e consolidato nel tempo  sia da chi pensa che i biodinamici siano delle specie di stregoni di serie B, seguaci di una pseudo religione atea che disprezza la scienza, sia da chi crede che i non biodinamici siano degli avvelenatori della terra. Questo doppio muro l’ho visto chiaramente in tanti discorsi fatti da esponenti di entrambe le parti in causa e, volenti o nolenti, credo sia dentro ognuno di noi quando parliamo di questi argomenti.

Viene costruito  usando anche mattoni lessicali: infatti fino a quando i seguaci (vedete come è facile caderci?) della biodinamica chiameranno “chimici” i vini prodotti dai non biodinamici e i produttori  o i seguaci (così siamo pari!) del metodo tradizionale si riferiranno agli altri chiamandoli appunto “altri”, magari con un’alzata di spalle che vale più di mille discorsi, un dialogo vero sarà molto difficile se non impossibile.

 

Bisogna quindi dare atto a Leonello Anello di uno sforzo erculeo per cercare di avvicinare i due mondi che, sia a livello di produttori sia a livello di consumatori, si confrontano quasi sempre con la lancia in resta.

 

I vari, relatori intervenuti (Fabrizio Torchio, Margarethe Chapelle, Luigi Moio, Sandro Sangiorgi che era anche moderatore e che ha guidato la degustazione, Mario Bertuccioli, Leonello Anello, Lisa Granchi e Monica Picchi) non riuscivano, scientemente o meno ad evitare di schierarsi, anche solo con il linguaggio gestuale, dall’una o dall’altra parte.

 

Anch’io ad un certo punto non ho potuto non schierarmi ed è stato quando Margarethe Chapelle ha parlato di cristallizzazione. Premetto che ero e sono completamente ignorante della materia, ma presentarla come ha fatto Margarethe, senza spiegarne le basi scientifiche, mi ha portato a fare il non certo benevolo confronto con la lettura dei fondi di caffè.

 

Al contrario, pur trovando la terminologia biodinamica piuttosto aulica e fantasiosa, sono rimasto colpito dall’intervento di Leonello Anello, da cui ho capito che la biodinamica deve essere rispettata (magari  puoi anche non seguirla, ma rispettarla si) sia per l’approccio al mondo in generale sia per le non poche pratiche colturali (di cui si può discutere e non solo denigrare) che prevede  sia in vigna che in cantina.

Da come vengono applicate queste tecniche possono nascere vini biodinamici buoni o cattivi e anche questo è molto condivisibile, perché non si parte dal presupposto “a prescindere” che se è biodinamico è buono (anche se puzza come una stalla). 

 

Ad un certo punto del suo intervento ho capito dove, con tutto il rispetto del mondo, non posso arrivare: è stato quando di passaggio ha accennato alla “cella di morte” riferendosi all’uso del freddo in vinificazione.  Per i rossi il problema è minimale ma sui bianchi diventa un ostacolo non da poco perché se dal mondo biodinamico si punta l’indice contro aromi creati solo dai lieviti, dall’altra mi sembra giusto riscontrare che tanti vini “naturali” hanno come caratteristica solo un livello più o meno marcato di ossidazione.

 

Comunque la parte forse più interessante del convegno è stata la degustazione bendata delle coppie di campioni (5 vinificati da uve biodinamiche in maniera tradizionale e 5 biodinamici) che erano alla base dello studio. I vini sono stati serviti random, naturalmente bendati e l’assaggio è stato guidato da Sandro Sangiorgi.

La prima cosa che mi sento di dire e che potrebbe buttare giù un po’ di mura è che i 10 vini non avevano difetti. Erano vini ancora molto giovani, in cui si poteva cogliere quasi sempre “l’ispirazione iniziale” ma che fossero biodinamici o tradizionali erano “tradizionalmente”  ben fatti e in diversi casi molto buoni.

 

Sempre a proposito di mura, non posso non notare che il modo di guidare la degustazione del caro amico Sandro Sangiorgi era diciamo, accondiscendente, verso i vini biodinamici (anche lui non sapeva l’ordine di servizio ma la sua conoscenza della materia lo rendeva inutile), nel senso che chiedeva a tutti di permettere ai vini di aprirsi e  dava più importanza alla fase gustativa che non all’olfattiva. Questo modo, adottato in maniera ancor più radicale da tanti seguaci dei vini cosiddetti naturali, mi crea sempre delle perplessità e mi domando se  degustare un vino a quel modo serva a coprirne i difetti olfattivi o a elevarne i pregi generali.

Nel caso della nostra degustazione la “forzatura” di Sandro era minima e ben mitigata dalla sua grande esperienza e bravura; inoltre i vini erano solo leggermente ridotti. Quindi non bisognava attendere molto per permettergli di esprimersi, ma la mia paura è che si debbano più che degustare, giustificare o perorare la causa di alcune tipologie di vino, magari usando tecniche particolari.

 

Paura che forse non tiene conto della realtà. A pensarci bene fino a trenta-trentacinque anni fa in Italia si degustava il vino solo con un metodo, quello dell’AIS: poi  è arrivata Slow Food, poi si sono aperte le frontiere e si è cominciato a frequentare corsi all’estero, poi sono nate guide che adottavano principi diversi di approccio al vino e di valutazione.

Siamo passati tutti attraverso i periodi della barrique, dei vitigni internazionali, dei vitigni autoctoni. Oggi i vini pieni di legno di 20 anni fa non vengono presi in considerazione e quindi è se non altro ammissibile che si prendano o meno in considerazione quelli che possono essere chiamati  “altri profumi” o “difetti” a seconda  di chi assaggia.

 

Il discorso sarebbe lungo e converrà riprenderlo in altra sede. Per adesso dobbiamo dare a Cesare, alias Leonello Anello, quel che è di Cesare,  cioè il merito di aver organizzato non solo un convegno ma un ponte tra due mondi che potrebbero e dovrebbero interagire di più, specie quando si parla di vino di qualità.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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