Non esiste il vino preferito, ma il rugbista si!5 min read

Diego Sorba è il patron del Tabarro, locale conosciutissimo nel centro di Parma. Ha scritto queste bellissime righe sul vino, sul rugby, sulla vita e non ho potuto non chiedergli di pubblicarle su Winesurf.

Ho deciso di farlo oggi, in occasione di Italia-Irlanda. Grazie Diego.

 

 

Una delle peggiori domande cui mi capita regolarmente di non voler rispondere è: “Qual è il tuo vino preferito?”.

Non siamo in pochi, per fortuna, a essere infastiditi dalle “classifiche del cuore”, soprattutto se si tratta di una materia che amiamo incondizionatamente e per intero.

 

Allo stesso modo, così come spesso ho voglia di bere diverso dal giorno prima o di cambiare disco appena acceso il motore della macchina, oggi, dopo quasi un trentennio d’amore, in ambito rugbystico non ho ancora una squadra per cui fare il tifo.

 

Colleziono momenti di commossa esaltazione, a seconda delle circostanze, di fronte al gesto atletico, alla corsa libera, all’impatto ben assestato, al rispetto educato delle regole, alla forza bruta, alla velocità, al cambio repentino di direzione, al saluto leale, alla rimonta corale, alla grande impresa.

 

L’importante è che la partita rimanga viva fino alla fine, e se è trifoglio irlandese o galletto francese, tricolore azzurro o cardo scozzese, rosa rossa dei Lancaster o piuma di struzzo del Galles, alla fine tanto vincere importa poi meno di averci messo il cuore. 

Infatti, quelle che a prima vista paiono prerogative tecniche, ripetono invece per via di metafora, si spera senza troppa retorica, il mio medesimo approccio alla vita, imparato anche sui campi di Via Montanara, San Pancrazio e Viale Piacenza da ragazzo: manifestare un gesto, un’arte, una volontà, con ostinazione da persecutore, e andare dritto verso una linea bianca immaginaria, da oltrepassare con la determinazione del singolo e il sostegno degli altri.

 

Similmente, nel bicchiere, dopo anni e anni di allenamento sul terreno fangoso delle osterie, scoprire il talento di un vino e saperne trarre beneficio e godimento è il vero segreto del piacere.

 

Ecco perché ricordo così bene il momento in cui da solo, senza che nessuno mi vedesse o potesse testimoniare, a 1400 km di distanza dal luogo in cui avveniva il fatto, mi sono messo a saltare sul divano e a gridare “Vaaaaiii!” a uno che non ho mai conosciuto e che da dentro il televisore di sicuro non mi avrà certo potuto sentire.

Londra, Sabato 18 Novembre 1995, pomeriggio.

Twickenham, tempio del rugby britannico.

Quindi, Europeo.

Quindi, se diamo importanza alle origini del gioco da una prospettiva meramente diacronica, Mondiale.

 

La Nazionale Sudafricana, fresca del titolo conquistato in patria contro gli All Blacks in un’epica Finale che con Mandela Presidente e il capitano afrikaner Pienaar a sollevare insieme la Coppa chiude simbolicamente l’ignominia dell’apartheid, è in tournée a casa della Regina Elisabetta.

 

A un certo punto, nel secondo tempo, il n. 9 degli Springboks decide che è ora di dare spettacolo.

 

Dopo una rimessa laterale, in un lampo parte in accelerata lungo un corridoio lungo e stretto come il canale di Suez, punta un avversario, finta a destra, rompe il placcaggio, scappa, corre, e quando gli stanno quasi addosso in tre allora calcia piano di collo sinistro con tutta la certezza e il calibro di chi sa che otto-nove metri più avanti si andrà a riprendere in braccio quel pallone, saltato l’uomo prima delle ultime quattro falcate che culminano nel tuffo finale al di là della linea di meta, il tutto in soli 8’’, con tanto di abbattimento della bandierina e Mediano d’Apertura inglese attaccato alla schiena come uno zainetto Invicta semivuoto e sbrindellato.

Assolo perfetto.

Meta da manuale.

Genio = “fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”, come dice il Perozzi in “Amici miei”, nella scena in cui alla festa in villa il Necchi fa la cacca nel vasino del bimbo.

Riuscire ad eseguire le cose pratiche in un colpo d’occhio, con una certa miscela di stile, distinzione e tocco, in modo da farle sembrare naturalmente facili, è l’augurio che chiedo allo specchio, le mattine in cui mi sento in gran forma.

 

E a dire il vero è esattamente quello che cerco nel fondo del bicchiere, con una certa quale sorpresa nonché soddisfazione, non appena lo ho svuotato di quel vino fatto come piace a me che io stesso ho avuto l’estro di versarci dentro e bere.

 

Alla faccia delle detestate classifiche, qui io affermo senza ripensamenti che Joost Van der Westhuizen (1971-2017) – tradotto in italiano viene quasi un nome da antico cavaliere, Giusto dalle Dimore d’Occidente – è stato il più forte mediano di mischia che io abbia mai visto giocare in vita mia.

 

Tristemente, con la stessa “sprezzatura” di cui si parlava sopra, martedì scorso, a soli 45 anni, la SLA se l’è portato via, inesorabile come una di quelle sue corse con l’ovale sotto braccio, quando non lo prendeva nessuno.

 

Quest’anno è alla memoria di quest’uomo che il TABARRO vuole dedicare i suoi pomeriggi di Rugby, dove sotto sotto a nessuno interessa vedere qualcuno che vince, ma tutti aspettano di potersi mettere a saltare su un divano immaginario di fronte al gesto perfetto di qualcuno che non siamo stati noi ma che noi che amiamo questo sport sapremo bene come non dimenticare.

R.I.P. J#9.

 

Diego (l’ennesima seconda linea che tu, Joost, avresti lasciato col culo per terra.)

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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